InsightAgency

Cos'è il Rebranding, come e quando farlo.

Col termine rebranding, o rivitalizzazione del marchio, si intende quel processo secondo il quale un prodotto o un servizio creato e commercializzato con un determinato nome e logo viene rilanciato sul mercato sotto un altro nome (o un’altra identità). Un’operazione, questa, molto frequente in caso di acquisizioni di brand. Ma non solo.

Un brand, infatti, non può essere immutabile. O meglio, sono pochissimi i casi in cui un marchio, sempre uguale a se stesso, può attraversare i decenni registrando sempre successi e consensi. Per tutti gli altri, al mutare del mercato e dei consumatori, delle tecnologie e dei competitors, è necessario aggiornarsi.

Non si può, del resto, analizzare il significato di rebranding senza sapere prima cos’è il branding. E, dunque, quel processo che le imprese mettono in atto per differenziarsi dai competitors grazie a nomi e simboli distintivi. Ovviamente, per definire questi aspetti bisogna partire da quella che è la propria filosofia aziendale, interrogarsi sulle idee e le emozioni da trasmettere. Perché saranno poi la base da cui partire per effettuare un rebranding aziendale.

Che cos’è il rebranding?

Il rebranding nasce da un’esigenza: cambiare la brand image di un prodotto/servizio, e dunque la percezione che i consumatori hanno di questo o dell’azienda che lo offre.

Non esiste in realtà un solo modo di fare rebranding: si possono modificare elementi distintivi quali il nome, il logo, le strategie di marketing e di vendita (rebranding totale) oppure ci si può limitare a piccole modifiche che migliorino l’assonanza percettiva del prodotto. Ad esempio, se un’azienda acquista un prodotto, può mantenere tutto identico e aggiungervi solo “il nuovo” prima del nome (il nuovo nome prodotto + di nome azienda acquirente). In questo caso, si parla di rebranding parziale.


 

Secondo il saggio “Rebranding Process – Il Processo di Corporate Rebranding” di Muzellec e Lambkin, il rebranding può invece essere evolutivo o rivoluzionario: nel primo caso riguarda in genere il logo o lo slogan, nel secondo avviene un cambio più radicale che può coinvolgere ad esempio il nome. E se il rebranding evolutivo è percepito in modo meno evidente dagli utenti in quanto è graduale e risponde ad adeguamenti messi in atto dall’azienda, il rebranding rivoluzionario porta con sé cambiamenti radicali che subito saltano all’occhio del consumatore.

C’è infine una terza distinzione, messa in campo da The Economic Times: quella tra rebranding proattivo e rebranding reattivo. Nel primo caso, l’azienda adotta questa strategia quando vuole migliorare la sua brand image, quando vuole crescere, quando vuole aprirsi a nuovi mercati o raggiungere un target di pubblico mai colpito prima; il secondo caso è invece una risposta a specifici eventi.

Ecco dunque che, a seconda dei casi, si andrà a mettere in atto una specifica strategia di rebranding.

Rebranding proattivo o reattivo: quando metterlo in atto

Il primo caso in cui studiare una strategia di rebranding è di tipo “interno”. Ad esempio, la volontà di raggiungere con quel prodotto un mercato o un target dalle caratteristiche del tutto diverse rispetto ai mercati e ai target a cui attualmente ci si rivolge. Oppure, la volontà di mantenere una certa coerenza tra un’evoluzione del proprio business e l’immagine di quel prodotto. O, ancora, la volontà di crescere e di espandersi. È il sopracitato concetto di rebranding proattivo.

Esempi di rebranding di questo tipo sono le aziende che cominciano a produrre prodotti diversi da quelli che formano il loro core business, e vogliono dunque adattare la loro immagine. Il rebranding così realizzato non avviene dunque sul prodotto, ma riguarda l’intera attività: è il cosiddetto rebranding aziendale.

Oppure, nel caso del rebranding reattivo, si va ad agire in risposta ad un fattore esterno. Ad esempio, una compravendita o una fusione aziendale, l’obbligo di rispondere a questioni legali o di utilizzo del marchio, le innovazioni e i cambiamenti messi in atto dai principali concorrenti. Ma anche, semplicemente, il cambiamento del pubblico (specie in settori che cambiano molto rapidamente, come quelli delle tecnologie o del digital marketing).

Non si tratta però di un’operazione priva di rischi: il cambiamento è sempre destabilizzante, specie se molto evidente. Ed è dunque necessario che il proprio rebranding sia frutto di un’attentissima analisi, per evitare che il pubblico reagisca in maniera negativa. O che non comprenda le motivazioni dietro quel cambiamento.

Il caso dei Brand Gap e Airbnb

Anni fa, ad esempio, il marchio fashion Gap cambiò radicalmente il suo logo ricevendo le critiche dei consumatori, che non capirono quella scelta e che non ritrovarono i valori aziendali nella nuova grafica; così, i manager furono costretti a ripristinare la vecchia immagine.


 

Airbnb, al contrario, riuscì a far apprezzare il nuovo logo (accusato di avere una connotazione sessuale) spiegando al meglio la sua filosofia, quella di un simbolo che rappresenta l’amore, i luoghi e le persone. E spiegando come fosse stato studiato per essere semplice e replicabile, in ogni parte del mondo.

 


Come effettuare un rebranding nel modo corretto

Al di là di quale sia lo scopo della realizzazione del rebranding, è necessario che l’intero percorso segua una logica ben precisa. Poco importa, che le proprie entrate non siano soddisfacenti o che si vogliano acquisire nuovi mercati: la strategia deve essere accorta e tenere conto del target che si intende colpire.

Tutto deve dunque partire da un’attenta analisi della propria azienda e del proprio brand, individuando punti di forza e punti deboli, ma anche il mercato. L’obiettivo è cercare di individuare le possibili minacce, così da batterle sul tempo. Ecco dunque che una scelta saggia è analizzare i propri competitors, per capire cosa nella loro azienda o nel loro prodotto/servizio funziona per cercare di replicarlo. O, meglio ancora, di migliorarlo.

In secondo luogo, bisogna trasferire la mission aziendale sul brand. Sempre tenendo conto che, quel brand, dovrà parlare ad un pubblico ben preciso con le sue esigenze, i suoi gusti e le sue caratteristiche. Scopo di un’operazione di rebranding è catturare infatti l’attenzione dell’utente: ecco dunque che conoscere i suoi interessi e ciò che in un prodotto cerca è fondamentale. Solo a quel punto si può passare all’aspetto grafico, visivo e testuale del prodotto.

Esempi di rebranding famosi

Ci sono aziende che, nel tempo, hanno effettuato numerose operazioni di rebranding parziale, apportando piccole modifiche solo lievemente percettibili.

 


È il caso di Google che – diverse volte – ha modificato il suo font, cambiato l’ordine dei colori, aggiunto elementi (poi eliminati) ed effettuato ridimensionamenti. Oppure di Dropbox, la cui operazione di rebranding è durata dieci anni, trasformando la scatola tridimensionale in una scstola piatta, secondo i dettami del sempre più in voga “flat design”.


 

Tra i più riusciti esempi di rebranding famosi totali troviamo invece quello di McDonald’s: inizialmente noto come distributore di “junk food”, tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila la catena ha iniziato a introdurre un’offerta più “sana”, a cui il logo non rispondeva più. Così, la M gialla su fondo rosso – sinonimo di un cibo a basso costo e di bassa qualità – ha lasciato il posto ad una M più discreta, su di un fondo verde bosco.


 

Allo stesso modo, anche Pepsi ha deciso di effettuare un’operazione di rebranding per avvicinare il suo logo ai valori espressi dal brand: all’inizio era una scritta rossa, Pepsi Cola, dall’aspetto baroccheggiante. Nel 1950 è stata introdotta la grafica del tappo, nel 1973 ha perso la denominazione “Cola” divenendo a tutti gli effetti solo “Pepsi”. Oggi la scritta è addirittura scomparsa, per lasciare spazio ad un tondo bianco, rosso e blu che è la massima stilizzazione dell’elemento tappo.


 

Riassumendo, è bene pensare ad un’operazione di rebranding quando:

  • l’azienda è cambiata, per l’introduzione di nuovi prodotti o l’apertura a nuovi mercati
  • il pubblico è cambiato, basti pensare a quanto hanno inciso il potere d’acquisto e il passaparola virale dei Millennials su molti prodotti
  • le tendenze sono cambiate, come nel caso dell’agroalimentare che – oggi – è spinto verso una dimensione sempre più green e sempre più healthy
  • il logo è obsoleto, in quanto creato in un periodo storico dai canoni stilistici ben diversi da quelli attuali.

Ovviamente, è fondamentale affidarsi ad un professionista che – per l’operazione di rebranding – non si limiti a disegnare un nuovo logo con nuovi colori, ma sappia cogliere a pieno la filosofia aziendale e i percorsi decisionali che hanno condotto alla rivitalizzazione del marchio. Solamente così, l’utente percepirà come positivo il cambiamento attuato e verrà conquistato (o rimarrà fedele al brand).