Il ricambio generazionale tra Baby boomers e Millennials è alle porte e il trasferimento di conoscenza, in termini di capitale intellettuale, è strategico per la business continuity
È sempre più vicino il momento in cui un’intera generazione, quella dei cosiddetti Baby boomers, si ritirerà dal mercato del lavoro, facendo sì che i Millennials diventino gli attori principali della forza lavoro. Lo scoccare dell’età pensionabile della generazione che fin ora ha mosso le fila del business impone una riflessione più approfondita del solito su quello che un usuale “passaggio di consegne” potrebbe comportare, avendo a che fare, di fatto, con un passaggio intergenerazionale, tra cui vi è solo la breve parentesi della generazione X (1965-1980), molto assimilabile per caratteristiche, a seconda degli anni di nascita, a Boomers o Millennials.
Tradizionalmente, la metrica principale in azienda è sempre stata il ROI (Return Of Investment), in riferimento al capitale, ma accanto a questo la variabile tempo è qualcosa che ha pari (se non superiore) valore, e al tempo è in indissolubilmente legata la conoscenza (knowledge).
Come riportato da una recente ricerca di Field Service News richiamata dall’azienda italiana OverIT operande nel settore Field Service Management, le aziende hanno evidenziato come l’invecchiamento della forza lavoro, che raggiunge il 73%, rappresenti una grande preoccupazione per le loro attività . Queste criticità derivano da una carenza di lavoratori qualificati, un divario nelle competenze pratiche e dalla necessità di formare molti neoassunti.
A quest’ultima si affianca una precedente ricerca condotta già alcuni anni fa a cura della Sloan School of Management del MIT che mette in luce come ai neoassunti necessitino in media più di 20 settimane per iniziare a lavorare al meglio (26 settimane circa per manager e dirigenti) con un costo fino al 2,8% dei ricavi totali.
Se si pensa a tutti i cambiamenti che il lavoro ha fatto propri negli ultimi anni, ci si rende conto di come la “perdita di conoscenza” per il business rappresenti un costo reale. Seppure il cambio della guardia tra Baby boomers e Millennials è evidente ed imminente, non sarebbe del tutto esaustivo parlare di perdita di know-how solo in termini di pensionamenti.
Il mondo del lavoro, come del resto tutta l’attuale società , è sempre più – con una parola largamente abusata – “liquido” e per cui la mobilità di personale è all’ordine del giorno, per le più svariate motivazioni, portando ovviamente con sé le proprie abilità e conoscenze.
Correre ai ripari
Ecco, allora, che diventa essenziale parlare di Knowledge Management (KM). In senso lato, il concetto può fare riferimento alla preservazione e alla condivisione della conoscenza ed ha radici nell’antichità con lo sviluppo di biblioteche e strumenti di comunicazione.
La moderna storia del Knowledge Management, invece, ha inizio nel 1986 quando lo studioso statunitense Karl Wiig, coniando il termine, ne introduce i fondamenti durante una conferenza allestita dall'Organizzazione Internazionale dei Lavoratori delle Nazioni Unite.
A partire da questo momento, il concetto così formalizzato inizia ad interessare molte importanti aziende soprattutto a carattere multinazionale e godrà di un'attenzione sempre maggiore, tanto da venire considerato indispensabile da molte società che nella realizzazione delle infrastrutture necessarie alla loro implementazione hanno investito capitali ingenti.
Il Knowledge Management, quindi, è oggi una pratica gestionale a supporto della strategia aziendale ed ha come scopo la costruzione di un sapere diffuso all’interno dell’organizzazione. A tal proposito, richiede un approccio integrato, che tenga conto di tre categorie di variabili: le persone, i processi e le tecnologie.
Ciò permette di esplicitare come, di fatto, il Knowledge Management si concentri sul concetto di conoscenza, declinandola in quello che gli studiosi chiamano “Capitale intellettuale”.
Una definizione di quest’ultimo è attribuibile a Thomas A. Stewart, direttore esecutivo del National Center for the Middle Market (NCMM), che afferma: “L’intelligenza e la conoscenza diventano capitale intellettuale quando da un brainpower libero si ricava un certo ordine utile, vale a dire quando ad esso viene data una forma coerente (una mailing list, un database, la scaletta di una riunione, la descrizione di un processo); quando esso viene incapsulato in modo tale da consentire di descriverlo, comunicarlo ad altri e sfruttarlo; e quando può essere applicato per fare qualche cosa che non si potrebbe fare se rimanesse sparpagliato come tante monetine in un rigagnolo. Il capitale intellettuale è sapere utile confezionato”.
Da ciò risulta chiaro come il sapere sia distribuito trasversalmente alle diverse funzioni all’interno dell’azienda. Inoltre, secondo un contributo di Stefano Epifani, Daniele Biagiotti e Francesco Depaolantoni, il capitale intellettuale “è costituito dalla somma dei suoi asset, composti da capitale umano, capitale strutturale, capitale relazionale”.
A ciò si aggiunge il fatto che la conoscenza, nelle sue varie articolazioni come quelle ad esempio sopra riportate, si presenta nelle due dimensioni della disponibilità -assenza di contenuti conoscitivi e della loro consapevolezza-non consapevolezza.
Si generano così quattro incroci possibili a cui corrispondono: conoscenza esplicita (disponibile e consapevole) da diffondere previa classificazione (mappatura e archiviazione), conoscenza tacita (disponibile ma non consapevole) da esplicitare mediante scambio di informazioni tra le comunità interessate (communites of practice), gap conoscitivi noti (ossia “ciò che non so, ma so di non sapere”) da ricoprire mediante esplorazione (motori di ricerca, agenti intelligenti, filtri) e gap conoscitivi sconosciuti (“ciò che non so, e non so di non sapere”) da scoprire, per esempio, mediante sistemi esperti ad apprendimento automatico.
Il Knowledge Management, allora, deve saper gestire le conoscenze di maggior valore, ovvero quelle che un’organizzazione è in grado di conoscere collettivamente, di condividere e di usare efficacemente per generare valore e per la crescita del business. La triade precedentemente citata (persone, processi e tecnologie) ha al suo interno anche il riferimento alle tecnologie, l’elemento che in maniera sostanziale ha oggi forse più margini di crescita in termini di trasferimento di conoscenze.
Ad esempio, la conoscenza esplicita può essere espressa in documenti testuali, email, database, pagine web, ecc. e può risultare più o meno gestibile in funzione del livello di formalizzazione e strutturazione con la quale risulta essere espressa: più alto è il grado di strutturazione, più potenti ed espressivi sono gli strumenti informatici in grado di trattarla (ad esempio, le tecnologie delle basi di dati e dei data warehouse usati in applicazioni di supporto alle decisioni).
La via tecnologica
Per di più, adottare tecnologie di ultima generazione è fondamentale per colmare il divario tra il personale prossimo alla pensione, lavoratori provenienti da altre realtà e giovani talenti in arrivo.
Queste tecnologie includono il concetto di Knowledge Management, sfruttato attraverso la Realtà Aumentata e Intelligenza Artificiale. Sempre in linea con quanto riportato dalla già citata OverIT, la Realtà Aumentata (RA) può essere utilizzata attraverso dispositivi mobili come smartphone, tablet, dispositivi indossabili (smart glass) per presentare informazioni in tempo reale, come istruzioni di lavoro digitali, checklist virtuali e videochiamate interattive.
L’Intelligenza Artificiale (IA), invece, opera con la Realtà Aumentata per ottimizzare le informazioni presentate all’utente fornendo dati, immagini, video o istruzioni “al bisogno”. In questo modo, facendo collaborare insieme le due tecnologie, sarà possibile offrire un trasferimento della conoscenza intuitivo, automatizzato e interattivo.
Appare chiaro come i vantaggi dell’integrazione di funzionalità di Knowledge Management all’interno di un’impresa impattino sulla formazione rapida ai nuovi membri del team (fornire orientamento e informazioni in tempo reale ai nuovi arrivati con conoscenza “on demand” che assicuri ai lavoratori di essere formati ovunque, in qualsiasi momento, in loco e senza sprecare risorse); sull'autonomia dei lavoratori sul campo (assistenza e guida da remoto, anche in ambienti con scarsa connettività , annotazioni in AR e condivisione dei contenuti in tempo reale, istruzioni di lavoro digitali, anche offline, conoscenze “on demand”, supportate dall’Artificial Intelligence) e offrano, in generale, un supporto continuo, che si può concretizzare in acquisizione, condivisione e archiviazione di dati essenziali per poterli consultare all’occorrenza, oltre che, ad esempio, alla gestione automatizzata dei dati.
La tecnologia, quindi, gioca un ruolo centrale nella costruzione di soluzioni per la gestione del capitale intellettuale aziendale, ma bisogna sempre ricordarsi che non può ergersi ad unica garanzia del successo: una cultura adeguatamente orientata alla condivisione del sapere, una corretta organizzazione e un’appropriata leadership, la disponibilità e sistemi di incentivazione del personale, sono fattori essenziali per il successo di qualsiasi iniziativa di Knowledge Management, specie se di carattere generazionale.
Alcuni testi che potrebber aiutarti ad approfondire l'argomento:
Knowledge management per la competitività d'impresa. Modelli, strumenti, casi di studio
di Paola Paniccia
La guida del Sole 24 ORE al Knowledge management
di Alberto F. De Toni e Andrea Fornasier
La gestione dei contenuti aziendali ed il knowledge management. Nuovi strumenti per il vantaggio competitivo
di Alessandro Zardini
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